In un interessante articolo scritto da Lilia Bordone de Semeniuk, Alberto Solimano, Aníbal Villa Segura e Samuel Zysman (colleghi argentini dell’APdeBA, Asociaciòn Psicoanalitica de Buenos Aires), che ho avuto il privilegio di tradurre per la rivista telematica Psychomedia (www.psichomedia.it), è esposta in modo puntuale e soprattutto sincero la complessità del problema relativo alla coesistenza tra due fattori concettuali e clinici in un’unica mente, quella dello psicoterapeuta impegnato con il paziente in un campo analitico: 1) i modelli teorici e tecnici appresi durante l’iter formativo e 2) gli elementi più o meno inconsci dell’“equazione personale”, che insieme vanno a definire l’“arte di fare psicoterapia”.
Gli Autori, con riferimento alla discrepanza che spesso risalta nella terra di mezzo tra teoria e clinica, ci forniscono almeno tre indicazioni rilevanti:
- “ […] la persistenza in tale confusione può portarci a credere che si possa lavorare a prescindere dalla relazione esistente tra i nostri interventi concreti e le teorie che li sostengono, cosa che ci esporrebbe al rischio di cadere prima o poi nell’improvvisazione o, peggio, in un’autosufficienza megalomanica.”
- “ […] non possiamo trascurare che l’osservazione e l’ascolto dei pazienti, sebbene costituiscano una attività cosciente e tributaria delle nostre capacità egoiche (o da un’altra prospettiva teorica, della parte adulta della nostra personalità, o dell’io idealmente plastico ecc), ha anche in modo ineludibile componenti inconsce ed irrazionali.”
- “Se riconosciamo di non essere completamente padroni dei nostri agiti, né delle nostre percezioni, né del loro accompagnarci nella vita di tutti i giorni, è difficile sostenere che potremmo esserlo mentre lavoriamo. In altre parole, l’uso che facciamo delle teorie per interpretare i nostri pazienti non è un atto così interamente razionale e neutrale come vorremmo che fosse; già Anzieu (1972) riassunse brillantemente questo punto di vista sostenendo che l’interpretazione è un processo secondario infiltrato nel processo primario.”
La questione rilevata dai colleghi argentini sottolinea l’assunto secondo cui nella mente dello psicoterapeuta al lavoro coabitano almeno due classi teoriche: 1) una teoria esplicita,quella che si riconosce come strumento proprio, ciò che lui pensa che vada a determinare il suo ascolto e la sua interpretazione o, per lo meno, quella che va a considerare come riferimento per dar conto della sua pratica; quasi sempre è una teoria “ufficiale” e questo significa che è condivisa da un gruppo o dalla scuola che lo psicoterapeuta considera di pertinenza. Per definizione è conscia o preconscia; sono teorie esplicite quelle che si apprendono e si affinano nei corsi di specializzazione post-universitaria, nei seminari e nelle supervisioni didattiche. 2) Unateoria implicita, quella messa in atto nella pratica psicoterapeutica, pur non essendo riconosciuta allo stesso modo della precedente perché nelle stanze d’analisi, di norma, entrano solo i terapeuti e i pazienti. Entrambi i tipi di teoria (implicitaed esplicita) non convivono in un rapporto “dissociato”, ma risuonano ed operano in forma congiunta nella comprensione del “fatto” psicologico e anche nella sua interpretazione. Adottando una visione psicodinamica del problema, è evidente che le teorie “mentalizzate” dallo psicoterapeuta, già di per se soggette a meccanismi di incorporazione specifici e soggettivi, “subiscano” vicissitudini simili a quelle degli oggetti psichici interni che sono subordinati a continui movimenti di cambiamento e rimodulazione. Durante il percorso di formazione è probabile che in un primo momento le teorie entrino nello psichismo del futuro psicoterapeuta alla maniera di un “apprendimento mimetico”, in forma di ripetizione – più o meno critica – di ciò che è stato visto o ascoltato (sapere “didattico”), senza che la loro completa significazione abbia la specifica sfumatura (sapere tecnico ed “esperienziale”) che avrà, poi, in seguito.Non di meno, a tutto ciò deve essere complementare la maturazione di un’imprescindibile integrità etica.
[1]“Le teorie nella mente dell’analista al lavoro”, in http://www.psychomedia.it.