La pandemia ha imposto a molti genitori una convivenza forzata con i propri figli: in case diventate prigioni, in una vita che si è inaridita di ogni distrazione. In questo stato di cose, sono tanti padri e madri a dirsi esausti, a sentirsi bruciare. Il parental burnout è una sindrome da esaurimento, che colpisce alcuni genitori e si caratterizza per tre elementi fondamentali. Il primo elemento è una sensazione di perdita di energie sufficienti per svolgere i compiti quotidiani. Il secondo è una sorta di distacco emotivo nei confronti dei figli, che avviene con un meccanismo automatico di difesa: il sistema non avendo più risorse stacca la spina dalla realtà nella maniera che può, riducendo la capacità empatica, la capacità di esserci, di trascorrere tempo di qualità con i figli. Il terzo elemento di questa sindrome è lo sviluppo della sensazione di non essere un buon genitore. Inefficace, incapace. Una condizione che ha per conseguenza un danno per l’autostima e un’altra serie di fattori negativi. Il burnout genitoriale nasce da un misto di caratteristiche del genitore che si mescolano con condizioni ambientali stressanti: tanto lavoro, difficoltà economiche, isolamento sociale. Il covid è diventato suo alleato, permettendogli di mietere sempre più vittime.
“È aumentato l’isolamento delle famiglie. Non si va più in piscina, non si organizza una festa di compleanno”. Questi aspetti portano a uno scadimento della qualità della vita e un aumento dell’isolamento sociale sia per i bambini che per i genitori. Diventa un circolo vizioso. È una situazione esplosiva”. L’esaurimento mentale è favorito da una serie di differenti fattori. I nonni che prima erano una risorsa, adesso non possono essere più sfruttati come prima, perché il rischio è che i nipoti possano infettarli. Si vive nella paura che i bambini possano contagiarsi a scuola. Classi sono state divise per evitare assembramenti: questo ha creato a una rottura di alcuni rapporti tra gli alunni e di conseguenza anche di legami tra i genitori non più della stessa classe. La convivenza forzata poi ha amplificato i problemi tra partner: “Molto spesso il lavoro in ufficio, per le coppie in difficoltà, è un sollievo, un modo per allontanarsi dai problemi: lo smart working ha privato di quella tregua”. E poi ancora, la confusione, la sensazione di essersi barcamenati all’interno di un tunnel a sola entrata: “I virologi, gli esperti danno informazioni contraddittorie che provocano sensazione d’impotenza: i genitori non sanno cosa fare, come reagire. Non riuscendo ad avere una percezione della fine, viene a mancare una pianificazione delle attività future. Ho rilevato un iniziale aumento di richieste di aiuto a orientarsi in una situazione che non ha precedenti”.
“Mi sento in colpa”, “Non so più che cosa fare”, “Non sono un bravo genitore”: come battute di un copione, le lamentele si ripetono identiche a se stesse per ogni genitore che affronta questa difficoltà, eppure nella difficoltà ci si sente completamente soli e incompresi.
Vittime sono soprattutto le madri, probabilmente perché sono ancora loro a prendersi più cura dei figli, anche se è una tendenza che si sta livellando: “Il rischio maggiore è che si possa sviluppare nei genitori uno stato ansioso e depressivo, delle vere e proprie psicopatologie. Un altro rischio è che aumenti la conflittualità di coppia e quindi situazioni relazionali già traballanti precipitino in crisi che porta a una separazione”. In questi casi, un aiuto da parte di uno specialista può essere importante. Ma prima ancora, da soli, c’è qualcosa che si può fare. Seppur il consiglio possa apparire banale risulta comunque efficace: bisogna fermarsi a respirare.