La questione della “felicità” accompagna da sempre l’essere umano. Pur trovando uno spazio allargato in quasi tutte le formulazioni filosofiche, l’idea di felicità riveste nell’accezione comune una dimensione squisitamente personale e spirituale. Di recente, in ambito psicologico è stata spesso inglobata nel più ampio concetto di Qualità della Vita, oggetto di molti dibattiti tanto a livello scientifico quanto di politica sanitaria, soprattutto per ciò che concerne la definizione dei parametri che la definiscono. Le riflessioni scientifiche e filosofiche sulla felicità si sono quindi concentrate in massima parte sui fattori soggettivi che la determinano, elementi che possono essere individuati nella soddisfazione per la propria esistenza, sia in generale, sia nelle singole esperienze di vita (famiglia, lavoro, sport, amicizia, pensionamento, salute, vita socioculturale ecc.), in contrapposizione ai fattori oggettivi, ossia di welfare, come quelli economici, abitativi, e ambientali) che interessano in larga parte altre discipline. Sebbene questi due ordini di fattori siano interconnessi, la dimensione soggettiva della felicità emerge nella sua complessità come oggetto psicoanalitico di maggior rilievo spesso a dispetto di molti altri comportamenti di autoprotezione della salute, e contro una concezione del welfare come causa sufficiente di benessere. Per essere considerata a pieno titolo come “felicità”, la soddisfazione dovrebbe manifestarsi ala stregua di uno stato psichico a lungo termine, nettamente distinto da emozioni e umori positivi invece transitori. Potrebbe essere quindi definirla come un sentimento, separato da un giudizio di valore sul proprio stato, sulle proprie condizioni, quest’ultimo riferibile piuttosto alla sfera cognitiva (Lewinsohn, 1991). In tal senso, la felicità è rappresentata da un vissuto più generale di benessere, uno stato dell’essere complessivo, analizzabile nei termini di appagamento in aree specifiche quali ad esempio il matrimonio, il lavoro, il tempo libero, i rapporti sociali, l’autorealizzazione e la salute. La felicità è anche legata al numero e all’intensità delle emozioni positive che la persona sperimenta e, in ultimo, come evento o processo emotivo improvviso e piuttosto intenso quando si rappresentata come gioia. In questo caso, è definibile come l’emozione che segue il soddisfacimento di un bisogno o la realizzazione di un desiderio e in essa, accanto all’esperienza del piacere, compaiono una certa dose di sorpresa e di attivazione (D’Urso e Trentin, 1992). L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce Qualità della Vita (Q.d.V.) quella “percezione che ciascuna persona ha della propria posizione nella vita, nel contesto della cultura o del sistema dei valori in cui è inserito, in relazione ai propri obiettivi, aspettative, priorità, preoccupazioni”. Fin dal 1948 questo stesso organismo si pronunciava sulla Q.d.V. a proposito delle problematiche inerenti la salute, dichiarando che essa dovesse essere qualcosa di diverso dall’assenza di malattia, bensì uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale. Emerge a tal proposito la visione del comportamento umano come dimensione olistica e inclusiva della salute fisica, sociale e psicologica, ma soprattutto se ne evince che, come la salute non può essere definita unicamente in termini di assenza di sintomi, così il benessere non può essere definito solo dalla mancanza di malessere. Allargando il contesto della riflessione sulla felicità al campo psicoterapeutico, ogni comparazione clinica muove da un’istanza in parte autoreferenziale: è il clinico occidentale che si arroga il compito e il diritto di giudicare con i propri mezzi (o le proprie teorie) e secondo le proprie concezioni quali sono i termini essenziali prescelti per istituire l’idea di felicità. Questione non secondaria è che tali termini risentono di quei costrutti profondamente radicati nelle logiche cognitive di una determinata cultura e sono profondamente dipendenti dall’organizzazione sociale generale, dalla storia e dal sistema di valori di quella determinata cultura. Com’è facile intuire, molte definizioni di felicità non sono soltanto ideali, ma ideologiche, cioè riflettono gli ideali (e quindi i valori) di élite alto-borghesi di una società tardo-industriale liberal-democratica. Da non sottovalutare, poi, l’impatto non sempre rassicurante dell’ideale di felicità sciorinata attraverso i social network. D’altra parte, anche il mondo orientale ha prodotto modelli di salute che risentono profondamente dell’influenza delle ideologie spiritualistiche più radicate. Secondo la tradizione tibetana di questo complesso sistema di pensiero, per esempio, l’individuo psicologicamente realizzato dovrebbe possedere principalmente queste caratteristiche: la generosità, la pazienza (anche intesa come forza e fermezza), l’entusiasmo, o sforzo energetico, anche per prove molto difficili, la stabilità mentale, o chiara concentrazione, e la saggezza, una profonda intuizione della natura e della causa di ogni sofferenza, il tutto volto a servire gli altri nel modo più efficace e senza ricerca di un tornaconto. Potrebbe quindi risultare comodo, ma sarebbe intellettualmente pericoloso e fuorviante, concentrare l’analisi comparativa su questi e pochi altri modelli come parametri esemplificativi di due culture, quella occidentale e quella orientale, caratterizzate invece da una notevolissima eterogeneità interna articolata sia in senso diacronico: la mentalità occidentale sarebbe analitica, discriminante, differenziale, induttiva, individualistica, intellettiva, oggettiva, scientifica, generalizzante, concettuale, schematica, impersonale, legalistica, organizzatrice, aggressiva, auto-affermativa e disposta ad imporre sugli altri la propria volontà; per contro, quella orientale sarebbe sintetica, assolutizzante, integrativa, non discriminante, deduttiva, non sistematica, dogmatica, intuitiva, affettiva, non discorsiva, soggettiva, spiritualmente individualistica e socialmente incline alla vita di gruppo.

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vincenzodeblasi Psicologo, Psicoterapeuta