Nelle narrazioni cliniche riferite alle dinamiche amorose la fa da padrone un processo direi peculiare e solo in parte “filosofico”: l’inversione della causa con l’effetto, ciò che Nietzsche nel suo Crepuscolo degli idoli. Ovvero come si filosofeggia col martellodefiniva come “transvalutazione dei valori”, una sorta di peccato esistenziale che si configura con l’errore dello scambio di causa ed effetto.
Causa ed effetto della crisi del legame, cioè, vengono confusi, mantecati, invertiti, a volte negati, utilizzati insomma in modo collusivo al fine di mantenere un equilibrio interno – ed esterno – magari insoddisfacente ma comunque sicuro solo perché esistente, solo perché “c’è”.
A volte basta questo a se stessi (e all’altro). Sono propenso a considerare tale stato dell’essere-stare-insieme come “reciproca accidia d’amore”. Più che mai, in questi casi, la mente, quindi, “mente” e i costrutti menzogneri (tanto verso gli altri quanto verso se stessi) saturano difensivamente il campo del pensiero produttivo, scivolando verso sentimentalismi stereotipati che poco hanno a che fare con le emozioni vere riferibili all’amore e molto, invece, con i sensi di colpa e la dipendenza affettiva. Tradotto in termini “pop”, sotto l’egida della rimozione e dello spostamento degli affetti profondi, ognuno porta acqua al suo mulino (più o meno inconsciamente, sia chiaro). Il principio guida della coppia in crisi, inconscio e fantasmatico, si configura sinteticamente in questo modo: meglio una relazione senza un vero piacere (o con un piacere ormai perso nel mito fondante il legame) che nessuna relazione.
Meglio la triste realtà che il desiderio o il sogno. La suddetta dinamica innesca un circolo vizioso da cui è difficile uscire, se non “vivi”, almeno “abbastanza felici”.
Nel lavoro clinico, accedere a questo impianto collusivo è molto faticoso in quanto nei pazienti la paura di accettare (o solo pensare!) il fallimento della relazione con l’oggetto d’amore – che non sempre vuol dire o coincide con il “lasciarsi” ma semplicemente mettere in discussione il legame – si erge come bastione insormontabile, da trattare psicoterapeuticamente con cautela e tatto in tempi non definibili a priori. L’interpretazione precoce del fortino psichico che maschera un tale conflitto inconscio in questo caso non mette al riparo dalla concreta possibilità che i pazienti scivolino in agìti esterni privi di riflessione (“mi faccio l’amante”, “lo/la lascio”) o, anche, nel drop out(fuga dalla terapia). Al di là che ognuno è libero di avere un amante o di fuggire dalla terapia (o che questi due casi siano il naturale precipitato della crisi-basta che l’amante non sia il o la terapeuta!), è impossibile riferirsi all’amore come uno spazio e un tempo in cui prima o poi entrambi i partecipanti al gioco non sperimentino vissuti di paura e rabbia. Se è impossibile pensare a un individuo che non entra in crisi nel corso della sua esistenza figuriamoci se lo è pensare ad una coppia che non entra in crisi durante il suo viaggio relazionale. Con una vena di ottimismo, Frédéric Beigbeder scriveva che “l’amore dura 3 anni”, mentre io credo che, invece, le crisi di coppia durino tutta la vita. La prima, quella dell’innamoramento, è catalitica, affascinante perché fa godere della perdita del controllo in favore del piacere erotico, ragion per cui entrambi i partner “vincono” nel pareggio del reciproco narcisismo. Non la si considera mai crisi ma, in fin dei conti, tale è in quanto produce un cambiamento rispetto al precedente stato di singletudine. A seguire, le altre crisi perdono poco a poco questo nutrimento essenziale e si trasformano in combattimenti pugilistici in cui ogni boxeur cerca di mettere al tappeto l’altro. A volte c’è tanta violenza in questo, in altre l’aggressività è di tipo passivo. Anche matematicamente il conto è facile: la crisi (e i suoi derivati) si moltiplica minimo per due, sempre se il calcolo non finisca per peggiorare in operazioni logaritmiche o esponenziali ben più complicate da risolvere.
In un senso forse accettabile ai più, la ragion d’essere, volente o nolente, è che il cambiamento fa parte della vita e passa attraverso compiti adattativi (sfide inconsce) molto irti e complessi. La soluzione spesso implica un certo grado di eroismo. Se i cambiamenti si vivono in coppia, il problema adattativo si complica e gli eroi devono essere due e devono combattere la stessa battaglia nella stessa epopea.