Nel momento in cui scrivo, se si digita “psicoterapia” sul motore di ricerca Google compaiono circa 150000000 risultati, un numero quasi doppio rispetto al tag “psicologia” o “filosofia”, e incredibilmente quasi sette volte maggiore se si va invece a cercare la voce “religione”.Siamo alla banalità della solfa “economica” che mette in relazione domanda e offerta?Non lo so, ma so che questi dati sono abbastanza stupefacenti e lasciano spazio a svariate riflessioni che preferisco considerare qui insature in quanto l’ “internautica”, se vogliamo così definire la tendenza a navigare in internet, credo sia un ginepraio decisamente fantasmagorico e iperuranico, dove tutto, spesso, è il contrario di tutto e dove ognuno si sente – giustamente – in diritto di esprimere la propria opinione sulla base della propria personale esperienza di utente. Rispetto a tale argomento siamo tutti filosofi e tutti un po’ osti che giudicano il proprio vino.Quando Freud era in vita non c’era internet e al tempo immagino che i modi di “pubblicizzare” le teorie e le tecniche psicologiche dovessero necessariamente passare per gli ospedali, per le facoltà universitarie di medicina o per le poche case editrici esistenti all’epoca.Ho sempre pensato che una delle sue idee più brillanti fu quella di promuovere in maniera allargata la psicoanalisi al grande pubblico, facendolo attraverso due opere apparentemente molto “pop” e poco accademiche per titolo, struttura e contenuti: L’interpretazione dei sogni (1899) e Psicologia e psicopatologia della vita quotidiana (1901).L’intento di Freud, probabilmente, era quello di proporre e spiegare una teoria e un metodo scientifico a loro modo rivoluzionari, che andavano a concretizzare un filone di pensiero poco accomodante rispetto alla cultura dell’epoca, che faceva “adattare” il mondo e che poteva più o meno facilmente essere compreso anche dall’uomo comune, colui che quotidianamente sogna, incappa in lapsus, dimenticanze ed atti mancati: sogni, lapsus e atti mancati, in un certo senso, sono decisamente i prodotti psichici più “normali” che si possa immaginare.Sebbene, come sosteneva lo psicoanalista americano Merton Gill, ogni opera di Freud può essere letta allo stesso tempo da più persone con esiti differenti (nel senso che ognuno, leggendo, ci vede ciò che ci vuole vedere), tra i pregi della sua letteratura vi è senza dubbio quello dell’eleganza teorica, termine con cui generalmente ci si riferisce alla capacità di spiegare in modo semplice, ma mai semplicistico, concetti, ipotesi, fenomenologie naturalmente complesse, e di rendere il pensiero fruibile, seppur con effetti diversi, a coloro che si interessano alla materia in oggetto.Forse grazie alla passione per la lettura dei grandi classici – come William Shakespeare, Johann Wolfgang von Goethe, Arthur Schnitzler, solo per citarne alcuni – il padre della psicoanalisi ha avuto quindi l’indiscusso merito di divulgare inizialmente le sue riflessioni attraverso un linguaggio “alto” ma allo stesso tempo caratterizzato da contorni “popolari”, perchè poliedrico nella sua vasta applicabilità alle vicissitudini esistenziali del singolo, dei gruppi e dei fatti sociali.
In altri termini, Freud ebbe il merito di creare un mediumlinguistico nuovo, mai didascalico, in grado di resistere nel tempo alle evoluzioni filologiche e, come elemento da non sottovalutare, ai diversi stili dei suoi traduttori, mantenendo una qualità esplicativa forse unica nel suo genere, tuttora accattivante e spesso riproposta (se non altro per devozione o contraddittorio) dalla maggior parte degli autori che si occupano di problemi psicologici.
Inoltre, l’eventuale difficoltà del linguaggio utilizzato da Freud è frutto del suo tempo e non bisogna mai dimenticare che si colloca alla fine dell’Ottocento, quando le “ragazze” venivano chiamate “fanciulle”. Da un altro punto di vista, risulta evidente che gli scritti freudiani fanno fronte da più di cento anni allo scorrere del tempo – e alle numerose teorie psicologiche, spesso avverse, che in questo scorrere si sono susseguite – perchè promotori di un discorso scientifico basato su una struttura di pensiero in cui concettualmente si alternano puntuali definizioni operative e definizioni volutamente insature, dense di potenzialità euristiche sul cui indiscutibile valore sarebbe ormai superfluo soffermarsi. Di recente, ad esempio, le più illustri menti della psicologia e della sociologia contemporanea hanno preferito spiegare il drammatico fenomeno del terrorismo di matrice jihadista facendo sponda con uno scritto freudiano risalente al 1921, Psicologia delle masse ed analisi dell’Io,[1]per molto tempo criticato e considerato come un’opera “minore”. L’eleganza teorica del corpus narrativo di Freud, oltre che su un’innovativa rivoluzione contenutistica, poggia sovente sull’utilizzo di metafore esplicative, spesso crocevia di riflessioni metapsicologiche oltre che di assunti teorici e tecnici.
Nel 1913, anno di pubblicazione de l’“Inizio del trattamento”,[2]Freud paragona il processo terapeutico a una partita a scacchi, in cui e di cui l’analista, attraverso le conoscenze teoriche e tecniche apprese e maturate nel suo iter formativo, può conoscere a priori le mosse di apertura e di chiusura, ma mai ciò che vi sarà nel mezzo:
[…] soltanto le mosse di apertura e quelle finali consentono una presentazione sistematica, mentre ad essa si sottraggono le innumerevoli svariatissime mosse che si succedono dopo l’apertura. (Freud, 1913, p. 331).
Perchè Freud intese volutamente lasciare aperto questo dubbio senza mai risolverlo in modo netto, preciso, tecnico? Evidentemente, il suo fu un fatto scelto.
I continuatori della teoria psicoanalitica – con differenti gradi di riconoscenza verso la dottrina pulsionale mantenuta radicalmente da Freud fino alla fine della sua teoresi – hanno cercato di colmare lo spazio compreso tra i solchi tracciati dall’apertura e dalla chiusura di questa “partita”, trattando le dinamiche del “tavolo di gioco” con concetti teorico/clinici – come quello di “campo bipersonale” (W. E M. Baranger, 1961) e di “terzo analitico intersoggettivo” (Ogden, 1999) – o con altri che, sopratutto nell’ambito della psicologia clinica, fanno riferimento alla volontà di sistematizzare il processo di cura attraverso la promozione di un complesso organizzato e coerente di linee guida, meglio inteso nel senso di teoria della tecnica, quell’insieme di strumenti che detta e scandisce la modalità del lavoro psicoterapeutico.
Il problema, tuttavia, sembra non essere chiarito, viene teoricamente risolto in modo distinto dalle diverse scuole di pensiero, e a tratti dà la sensazione di riproporre un dibattito basato sull’impossibilità di svincolarsi dal pesante carico di una dicotomia quasi inguaribile: Anima vs Logos. C’è poi da considerare una questione un po’ meno teorico-tecnica e un po’ più prêt-à-porter, che fa da eco a un classico luogo comune: “gli psicologi sono tutti matti”.
Per ovvie ragioni e non certo a difesa della categoria, preferisco non esprimermi e risolvere il tutto con un atto di grande politically correct citando Freud in una delle sue cinque conferenze sulla psicoanalisi alla Clark University di Worcester (Boston): “i nevrotici si ammalano degli stessi complessi contro cui lottiamo noi sani”. Meglio pensarla così.
Con onestà intellettuale, c’è comunque da riflettere sull’inclinazione specifica del terapeuta, attitudine in altro modo definibile come “equazione personale”, termine dal conio abbastanza originale. Il mito racconta la particolare vicenda di Maskelyne e Kinnebrook, due astronomi erano che rispettivamente direttore e assistente di uno stesso osservatorio. Maskelyne nel 1796 licenziò il suo assistente perché questi, sistematicamente, osservava il passaggio delle stelle più di mezzo secondo dopo di lui. L’austero Maskelyne non riusciva a concepire che un osservatore che aveva la sua stessa preparazione e che seguiva lo stesso metodo registrasse i fenomeni astrologici sempre in tempi diversi. Solo dopo 26 anni fu riconosciuta tale possibilità e risolta la discrepanza dal matematico e geodeta tedesco Friederich Wilhelm Bessel: naturalmente il povero Kinnebrook venne riabilitato. Commentando la vicenda, anni dopo, nel 1945 Russell scrisse: “questa equazione personale continua a essere anche nell’astronomia odierna una possibilità di errore estremamente irritante perchè varia secondo le condizioni fisiche dell’osservatore e secondo la natura e la luminosità dell’oggetto osservato”.La storia di Maskelyne e Kinnebrook ha un non so che di curioso e metaforico. Tuttavia, ciò detto, come si coniuga la creatività implicita nell’“equazione personale” del terapeuta con i princìpi sistematici indicati e insegnati dalla tecnica? Come evitare i rischi congeniti al fatto che la prima potrebbe scivolare in autoreferenza, manipolazione della situazione analitica, caos e la seconda in rigidità, freddezza e tecnicismo? Come è possibile rispettare la libertà, la creatività, il “non-finito” del sogno bipersonale di cui la coppia paziente/terapeuta fa esperienza in analisi (Ferro, 2009) se il bagaglio tecnico a cui il terapeuta fa riferimento si metabolizza e si radica attraverso anni di studi e di formazione specializzata sulla base di modelli teorici scelti più o meno consapevolmente (o, a volte, semplicemente subìti) ?Apprezzando l’intuizione di T.H. Ogden (2005)[3], molti di coloro che si interessano di psicoterapia – e che ne hanno fatto il proprio mestiere in contesti clinici o accademici – sembrano oggi concordare sulla possibilità di pensare il pensiero ed il processo analitico (la partita a scacchi evocata dalla metafora freudiana) al pari di una forma di arte.
Questa definizione appare decisamente significativa nel momento in cui affronta i molteplici vertici e le complessità del lavoro psicoterapeutico, di una pratica clinica che per natura oscilla sempre tra creatività soggettiva e precise indicazioni tecniche.
[1]In quest’opera Freud analizza puntigliosamente il ruolo del capo e dell’ideologia dominante come fattori che innescano il contagio sociale e la suggestione all’interno delle masse.
[2]S. Freud, Inizio del trattamento (1913), O.S.F., vol. 7, Torino, Boringhieri, 1975.
[3]T.H. Ogden (2005), L’arte della psicoanalisi. Sognare sogni non sognati, Raffaello Cortina Editore, Milano.