Lo psicoanalista americano Erik Erikson (1902-1994) ebbe il merito di elaborare una teoria psicosociale dello sviluppo che integra, in modo armonico, i presupposti del modello freudiano con i principi sociologici che fanno riferimento ai concetti di “mondo esterno” e di “realtà esterna” (De Blasi, 2009).
Parallelamente a questo pregio, la teoria di Erikson sovradetermina l’importanza di un’impostazione evolutiva costruita contemporaneamente sull’analisi del livello “normale” e del livello “patologico” di sviluppo psichico. Il tipo di preadattamento del neonato umano, meglio definito dall’attitudine a superare le crisi psicosociali attraverso diverse fasi epigenetiche, richiede, oltre a un “ambiente fondamentale” (quale può essere la diade madre/bambino nella dimensione del maternage), anche una serie di ambienti “sociali” più o meno “prevedibili” (famiglia allargata, gruppo dei pari, amici ecc.)
L’ambiente deve permettere e salvaguardare:
“[…] una serie di sviluppi più o meno discontinui, eppure culturalmente e psicologicamente coerenti, ognuno dei quali si estenda lungo tutto il raggio dei compiti vitali in espansione” (E.Erikson cit.in R.Friedman, 1999).
Questo processo fa dell’adattamento umano una questione di cicli vitali, che si sviluppano all’interno della mutevole storia della comunità in cui il soggetto è inserito.
Di conseguenza:
“[…] una sociologia psicoanalitica deve affrontare il compito di concettualizzare l’ambiente umano come tentativo persistente delle generazioni di collaborare allo sforzo destinato a fornire una serie integrata di ambienti mediamente prevedibili” (ibidem).
Le origini della teoria: il principio epigenetico e il concetto di Crisi
Il progetto del ciclo della vita vide la luce alla metà degli anni Quaranta dello scorso secolo.
Con la puntuale collaborazione della consorte Joan, Erikson concentrò i suoi sforzi nell’obiettivo di superare lo schema di sviluppo psicosessuale di Freud senza tuttavia scadere nel criticismo esasperato al modello psicoanalitico ortodosso come invece, parallelamente, stava accadendo nella comunità scientifica statunitense.
Nel tardo 1930, Erikson aveva abbozzato quattro stadi di sviluppo: Infanzia, Latenza, Pubertà, e Adattamento adulto eterosessuale. Il suo pensiero era molto vicino alla teoria dello sviluppo sessuale infantile di Freud, anche se mosso dall’intento di tracciare una carta evolutiva che si estendesse attraverso tutto l’arco della vita. Nello stesso periodo, formulò un diagramma dello sviluppo pregenitale che raffigurava otto quadrati lungo la diagonale di una tabella, dall’angolo in basso a sinistra fino a quello in alto a destra.
Ciascun quadrato rappresentava l’intersezione di un asse verticale contenente una lista delle zone erogene del corpo (orale, anale, fallica, genitale, così come postulato da Freud) e un asse orizzontale relativo agli impulsi che attivano queste stesse zone. Ampliando la sua visione, Erikson pensò di poter utilizzare questo diagramma per schematizzare il corso della vita umana, per cui ogni quadrato della diagonale diventò, nel progetto teorico seguente, uno stadio della vita. Sempre in questi anni, Erikson ipotizzò che lo studio dei cambiamenti socio/culturali avrebbe potuto arricchire le sue nuove formulazioni teoriche; questa intuizione fu sistematizzata nel 1940 quando, dopo aver approfondito il materiale clinico raccolto nei numerosi anni di attività psicoterapeutica, arrivò a capire come e quanto la comunità sociale all’interno della quale un bambino cresce sia importante per tutto lo sviluppo psicologico (De Blasi, 2009).
Gli studi antropologici compiuti tra le tribù dei Sioux e degli Yurok rinforzarono in seguito tale idea.
Per poter organizzare in un corpus teorico coerente i risultati delle sue ricerche, Erikson adattò dall’embriologia il concetto di sviluppo epigenetico applicato alla maturazione del feto ed alla sua evoluzione. Focalizzando l’attenzione sull’ambiente esterno, notò inoltre che ci sono due aspetti importanti all’interno della vita familiare in cui è inserito il bambino: 1) le qualità “sociali” dei genitori nella relazione col bambino e 2) le relazioni di socializzazione con i fratelli e le sorelle:
“Il risultato del normale sviluppo è una appropriata relazione di taglie e funzioni tra gli organi del corpo. Se la “giusta percentuale” e la “sequenza normale” sono disturbate, il risultato potrà essere un monstrum in excessu o un monstrum in defectu” (E.Erikson cit. in R.Friedman, 1999).
Nell’impostazione teorica di Erikson, lo sviluppo della personalità umana segue evolutivamente il Principio Epigenetico che deriva dalla crescita degli organismi nell’utero.
Questo principio si applica allo sviluppo fetale, dove ogni parte dell’organismo ha un suo particolare tempo di crescita con i relativi pericoli d’imperfezione.
Ciò significa che:
“[…] qualsiasi cosa cresca ha un piano di base, e che da questo piano di base provengono le parti: ogni parte ha il suo periodo particolare di evoluzione, fino a quando tutte le parti non siano venute a formare un insieme funzionante” (ibidem).
A partire da tali presupposti, la crescita umana avviene per stadi successivi che rappresentano lo sviluppo secondo uno schema delle varie parti di un’intera personalità psicosociale.
Tutti gli stadi nella teoria epigenetica di Erikson sono presenti fin dalla nascita e si evolvono in base ad un piano innato, con ogni stadio che si sviluppa su quello precedente e fa da fondamenta a quello successivo.
Egualmente importante fu la sistematizzazione del concetto di Crisi psicosociale, per cui: “una identità completa è solo una crisi vinta” (Erikson, 1968).
La definizione di Crisi ha una valenza strettamente evolutiva e suggerisce non tanto l’idea del pericolo di una catastrofe, quanto (similmente a quanto accadeva nel linguaggio medico dell’epoca) un’esperienza di cambiamento, di un periodo cruciale di accresciuta vulnerabilità e, al contempo, di rafforzata potenzialità.
Da questi presupposti, qualsiasi crisi può essere evolutivamente “normale” e non patologica.
É possibile quindi collegare il concetto di crisi al significato letterale del termine.
Il termine greco dal quale deriva (krinein) significa, infatti, “decidere”, “giudicare” e, in senso più allargato, “possibilità di scelta”.
Pertanto, la “crisi” può essere intesa come un’occasione per “scegliere”, una potenziale opportunità di cambiamento.
Crisi normative e crisi di identità
In psicoanalisi le fasi critiche della vita sono state descritte in termini di pulsioni e difese:
“[…] la psicoanalisi si è occupata dell’influenza di crisi psicosessuali sulle funzioni psicosociali (ed altre) più che della crisi specifica provocata dalla maturazione di ogni funzione” (Erikson, 1968).
Nella teoria di Erikson, ciascun passaggio evolutivo è caratterizzato da una “crisi psicosociale” che è basata sullo sviluppo fisiologico e sulle “domande relazionali” poste all’individuo dal gruppo primario di riferimento (genitori) e dagli altri gruppi sociali.
Idealmente, le crisi dovrebbero essere risolte all’interno di ciascuno stadio in cui si manifestano, affinché lo sviluppo proceda “correttamente” e in modo sufficientemente “adattativo” (anche se i risultati di ciascuno stadio non sono permanenti, ma possono essere modificati da esperienze future).
L’individuo, quindi, si caratterizza per un insieme di tratti “personali”, derivati dalle esperienze compiute, per cui lo sviluppo, nel complesso, è considerato in modo positivo se nel soggetto si ha una predominanza dei tratti “buoni” (adattativi) rispetto a quelli “cattivi” (disadattativi).
Ogni nuova abilità è collegata agli altri fattori dell’identità in via di sviluppo: in questa prospettiva, l’Io ha la funzione di integrare gli aspetti psicosociali e psicosessuali a un dato livello di sviluppo e, al tempo stesso, di “sintonizzare” i nuovi elementi dell’identità con quelli già esistenti (al fine di superare le discontinuità tra i diversi livelli di sviluppo).
Nel definire i principi del processo evolutivo di integrazione della personalità, le “cristallizzazioni di identità” (quelle che nella teoresi freudiana facevano riferimento alle “fissazioni” libidiche) possono essere soggette ad eventi conflittuali quando i cambiamenti fisici, l’allargamento degli orizzonti mentali e le nuove esigenze sociali svelano l’inefficienza degli adattamenti precedenti:
“[…] eppure queste crisi normative di sviluppo differiscono da crisi imposte, traumatiche e nevrotiche in quanto lo stesso processo di crescenza fornisce nuove energie, mentre la società offre nuove e specifiche occasioni, a seconda della concezione dominante delle fasi vitali” (ibidem).
In quest’ottica, anche l’adolescenza viene ad essere una “crisi normativa”, cioè una fase normale di conflitto intensificato e caratterizzato da un’apparente fluttuazione della forza dell’Ego, oltre che da un forte potenziale di crescita:
“Le crisi normative sono crisi reversibili, sono caratterizzate da un’abbondanza d’energia disponibile, che risveglia ansie sopite e suscita nuovi conflitti, ma incoraggia anche nuove e più estese funzioni dell’ego nella ricerca e nella spensierata accettazione di nuovi impegni e nuove associazioni. Quello che ad un semplice esame può sembrare una nevrosi, spesso è solo una crisi aggravata, che potrebbe finire da sola o contribuire al processo di formazione dell’identità” (Erikson, 1968).
La “crisi” rappresenta un “momento” o un “evento” che può avere diversi esiti e la sua valenza (come evento positivo o negativo) dipende da un complesso campo esperienziale in cui si articolano: 1) l’evento caratterizzante, 2) le risorse di cui dispone il soggetto e 3) il sostegno offerto dall’ambiente.
Gli stadi e le crisi hanno un significato sociale e dipendono dalla qualità delle dinamiche relazionali allargate a tutto il campo sociale.
Erikson mette in primo piano la concezione secondo cui il conflitto s’instaurerebbe tra l’abitudine dell’adattamento a un ordine sociale superato e la necessità di adattarsi ad una nuova forma di ordine sociale. Per queste ragioni, le crisi psicosociali sono delle funzioni di crescita e non nascondono a priori alcun rischio: in altri termini, quelle evolutive non sono delle crisi nel senso negativo del termine, a meno che non intervengano dei conflitti storici ad aggravarle o non siano presenti dei disturbi organici o ereditari.
Nell’evoluzione fisica e psichica, l’essere umano acquisisce le capacità per poter far fronte ai compiti esistenziali, cioè ad un insieme di scelte e di prove che sono dettate dal contesto socio/culturale. Per queste ragioni: 1) ogni nuovo compito esistenziale comporta una crisi il cui esito può corrispondere ad un progresso o ad un fattore di aggravamento nelle crisi future; 2) ogni crisi prepara la successiva e 3) ogni crisi concorre alla costruzione della personalità adulta.
In particolar modo, Erikson focalizzò l’attenzione sul concetto di “crisi d’identità”:
“Ho chiamato la crisi più importante dell’adolescenza crisi d’identità. Essa si presenta in quel periodo del ciclo della vita, nel quale ogni giovane deve forgiarsi una prospettiva, un orientamento centrale, un’unità funzionante da ciò che rimane della sua infanzia e delle speranze della sua prefigurata maturità; nel quale insomma egli deve scoprire una qualche analogia significativa tra ciò che ha visto in se stesso e ciò che ritiene gli altri si attendano da lui” (Erikson,1968).
Il dilemma di identità implica un crollo della capacità di concentrazione ed è accompagnato da un ritiro della competitività. Nell’accezione dell’Autore, la crisi di identità non è uguale per tutti gli individui: in alcuni è minima, in altri assume l’aspetto di un periodo critico, di una specie di “seconda nascita” che può essere aggravata da una nevrosi o da un’insicurezza ideologica. Alcuni individui in età adolescenziale possono soccombere a questa crisi assumendo comportamenti nevrotici, psicotici o delinquenziali; altri, invece, trovano risoluzione grazie a movimenti religiosi, politici o artistici; altri ancora, sebbene sofferenti e smarriti, la supereranno vivendo quella che Erikson chiama “adolescenza prolungata”.
In Autobiografia in parallelo (1976) Erikson intese sottolineare che la crisi d’identità è sia psichica che sociale, perché definita in un senso soggettivo e in una qualità oggettiva sia del soggetto che del mondo:
“[…] è uno stato di essere e di divenire dotato di una qualità altamente cosciente e che tuttavia rimane, nei suoi aspetti motivazionali, del tutto inconscia e assalita dalla dinamica di conflitto; è caratteristica di un periodo di sviluppo; dipende dal passato, […] a motivo delle forti identificazioni compiute durante l’infanzia […] mentre per la sua soluzione fa affidamento ai nuovi modelli incontrati e ai ruoli offerti nel periodo in cui si incomincia ad essere adulti”.
Pertanto, la “confusione d’identità” non è solo una questione di immagini contraddittorie di sé o di aspirazioni, di ruoli e opportunità, ma un pericoloso disturbo per l’interazione dell’individuo con la totalità complessa dell’ambiente di appartenenza.[1]
A tal proposito, Erikson ritiene che la confusione d’identità non sia una categoria diagnostica, ma una descrizione della crisi di sviluppo in cui si è verificato per la prima volta il disturbo in forma acuta. Uno stato di confusione acuta d’identità è manifesta quando il giovane si trova esposto ad un insieme complesso di esperienze, che esigono al tempo stesso: 1) un vincolo d’intimità fisica (non solo sessuale), 2) la scelta di una occupazione e 3) la definizione di un ruolo psicosociale.
Per queste ragioni, lo sviluppo critico del senso di identità diventa un conflitto centrale nel processo evolutivo individuale ed impegna il soggetto a fondare le basi adattative per sviluppare e risolvere le successive crisi, specifiche a diversi ambiti relazionali (come l’intimità, la prospettiva temporale, l’industriosità). La perdita del senso d’identità si esprime in una sprezzante e snobistica ostilità nei confronti dei ruoli presentati come opportuni e desiderabili dalla famiglia o dal gruppo sociale di appartenenza: in questo caso, gli aspetti disadattativi del ruolo appaiono non desiderabili e diventano il centro del rifiuto.
I conflitti si esprimono in “modi più sottili che non l’annullamento dell’identità personale”, per cui gli individui possono ricercare un’identità negativa, cioè:
“[…] un’identità perversamente fondata su tutte quelle identificazioni e quei molti ruoli che, in certi stadi critici di sviluppo, erano stati loro presentati come indesiderabili e pericolosi, eppure molto reali” (E.Erikson cit. in R.Friedman, 1999).
In alcuni casi, l’identità negativa è dettata dall’esigenza di trovare e difendere gli aspetti sani del proprio narcisismo contro le eccessive ambizioni genitoriali.
Se la crisi d’identità è esperita in modo catastrofico è più facile che si sviluppi una dinamica identificatoria con “ciò che non si dovrebbe essere” piuttosto che un complesso di motivazioni intrapsichiche ed interpersonali volte alla conquista di un sentimento di realtà in ruoli accettabili.
Nell’ipotesi teorica e clinica di Erikson, la costruzione di una coscienza d’identità è definita pscologicamente da “una forma di auto-consapevolezza che si riscontra nelle discrepanze tra l’auto-stima, l’auto-immagine gonfiata come una persona autonoma e la propria apparenza agli occhi degli altri” (ibidem).
In particolar modo, durante questa crisi esistenziale, l’individuo adolescente mette in atto un forte atteggiamento difensivo (in parte inconscio e in parte conscio), volto a proteggere il vacillante senso di auto-sicurezza ed evitare, perciò, vergogna e dubbio.
In Young Man Luther (1958) Erikson afferma che la condizione cui si riferisce il termine crisi d’identità, “come ogni condizione sana, è ovvia solo per coloro che la possiedono, mentre a coloro che ne hanno provato l’assenza, si presenta come l’oggetto di una complessa conquista”.
Solo nella malattia ci si rende conto della complessità del corpo e della psiche, e solo in una crisi individuale o storica diventa evidente quanto la personalità umana sia una combinazione di fattori (passati e presenti, inconsci e consci, individuali e gruppali) reciprocamente combinati.
L’avvento e la soluzione della crisi dipendono in parte da fattori psicobiologici (che assicurano la base per un sentimento coerente della personalità vitale) e in parte da fattori psicosociali (che possono prolungare il conflitto laddove le tendenze di una persona richiedono una ricerca più prolungata). Nella relazione sociale e nel bisogno di identificazione sociale gli individui sperimentano dei sistemi di pensiero e di valori che possono curare o aggravare i loro problemi d’identità.
La parte sociale della crisi deve essere spiegata all’interno della sfera comunitaria in cui l’individuo è inserito e in cui trova se stesso. Nell’interpretazione avallata da Erikson, in certi individui, in certe classi, o periodi storici, la crisi personale d’identità avviene silenziosamente e circoscritta sulla base di comportamenti che portano ad una nuova nascita; in altre persone o in altri periodi storici, la stessa crisi può essere individuata come una fase altamente critica, intensificata e aggravata da lotte collettive o tensioni sociali. La natura del conflitto d’identità, quindi, risulta legata al periodo storico in cui avviene ed è specificatamente connessa alle promesse sociali o al panico latente nella società: periodi storici “critici” possono portare all’esperienza di una identità “vuota”, altri, all’opposto, ad un rinnovamento collettivo. Pertanto, i problemi d’identità e i sintomi della confusione d’identità sono legati al contesto storico e variano in conseguenza dei cambiamenti della società e del periodo. In ogni caso:
“[…] lo studio della natura dell’identità in differenti periodi della storia (e in gruppi differenti durante lo stesso periodo) può ben rivelarsi uno strumento storico così come clinico, purché gli usi di questi concetti siano essi stessi sottomessi a un vaglio storico” (ibidem).
Gli stadi dello sviluppo psicosociale
La teoria di Erikson mira a studiare l’intero ciclo della vita come fenomeno psicosociale integrato (Roazen, 1982). In tal senso, l’Autore accetta le nozioni di base della teoria psicoanalitica ma rifiuta il tentativo di Freud di descrivere lo sviluppo della personalità solo sulla base della sessualità e della dinamica relativa alle pulsioni libidiche. Inoltre, in via differenziale rispetto al pensiero psicoanalitico ortodosso, il principio epigenetico di sviluppo elaborato da Erikson considera che la personalità umana si evolva lungo un continuum che abbraccia temporalmente tutta la vita.
Ogni grado del ciclo della vita presenta dei “compiti esistenziali” sempre nuovi, cioè una serie di problematiche esperienziali e di scelte che sono “definite” dai gruppi sociali in modo tradizionale. Per queste ragioni, l’individuo deve essere abbastanza forte da integrare lo sviluppo del proprio organismo con la struttura ed il contesto della società in cui è inserito (De Blasi, 2009).
Erikson vede la crescita evolutiva come un processo continuo, collegato al raggiungimento dell’integrazione, e ritiene che sia possibile definire alcune crisi psicosociali tramite le potenzialità e le limitazioni che ciascuno stadio offre in qualità di “scelte”, attraverso i compiti che l’individuo si trova via via ad affrontare nell’ambito della rete di relazioni in cui è inserito.
STADI E
PROCESSI PSICOSESSUALI |
CRISI
PSICO-SOCIALI |
RELAZIONI
SIGNIFICATIVE |
ENERGIE
DI BASE |
|
I
Infanzia
II Prima Fanciullezza
III Età del Gioco
IV Età scolare
V Adolescenza
VI Giovinezza
VII Età Adulta
VIII Età Senile
|
Orale/respiratorio,
Sensoriale/ Cinestetico (Processi Incorporativi)
Anale/Uretrale, Muscolare (Ritentivi/ Eliminativi)
Genitale/Infantile, Locomotorio
Periodo di “Latenza”
Pubertà
Genitalità
Procreatività
Generalizzazione dei processi sensuali
|
Fiducia di fondo vs.
Sfiducia di fondo
Autonomia vs. Dubbio/ Vergogna
Iniziativa vs. Senso di colpa
Industriosità vs. Inferiorità
Identità vs. Diffusione dell’identità
Intimità vs. Isolamento
Generatività vs. Stagnazione
Integrità vs. Disperazione |
Figura materna
Figure parentali
Nucleo famigliare
“Vicinato”/Scuola
Gruppi di coetanei e gruppi esterni; Modelli di guida
Compagni nell’amicizia, nel sesso, nella competizione
Cooperazione nell’attività lavorativa e le responsabilità della famiglia
“L’Umanità” “La progenie” |
Speranza
Volontà
Finalità/ Fermezza di propositi
Competenza
Fedeltà
Amore
Cura
Saggezza |
All’interno del processo esistenziale, l’individuo può riconoscere e sviluppare un elenco di forze che scaturiscono dal ciclo della vita in evoluzione. Ognuna di queste forze contribuisce alla risoluzione delle varie crisi di crescita e ogni decisione coinvolge la dimensione psicologica e la dimensione sociale del singolo. Le potenzialità insite nella natura umana si presentano quindi come forze dell’Io, nell’accezione ed in qualità di “virtù”:
“In latino “virtù” significa “virilità”, che a sua volta suggerisce almeno la combinazione di forza, controllo e coraggio […] nell’antico inglese iessa voleva dire forza intrinseca o qualità attiva e veniva usata, per esempio, per definire l’invariata efficacia di farmaci o liquori ben conservati” (Erikson, E., 1963).
Nell’interpretazione suggerita da Erikson, la sopravvivenza psicosociale dell’individuo è salvaguardata dalle virtù vitali, che si sviluppano nell’interazione di generazioni successive.
Le generazioni si alternano contiguamente in strutture organizzate all’interno di una fitta rete di relazioni sociali ed istituzionali in cui gli stadi di un individuo interagiscono con quelli di un altro influenzandosi a vicenda:
“Parlerò quindi di speranza, volontà, fermezza di propositi e competenza come dei rudimenti di virtù sviluppati nell’infanzia; di fedeltà come della virtù dell’adolescenza; e di amore, cura e saggezza come delle virtù centrali dell’età adulta. Pur nella loro apparente discontinuità, queste qualità dipendono l’una dall’altra. La volontà non può venire allenata fino a che la speranza non è ben ferma, né l’amore può diventare reciproco se la fedeltà non si è già dimostrata sicura” (ibidem).
Il negativo di queste virtù è la “debolezza”, reificata in termini sociali attraverso una costellazione “sintomatologia” definita da “disordine”, “disfunzioni”, “disintegrazione”, “anomia”:
“Il termine debolezza non riesce ad esprimere tutta la complessità del disturbo e a spiegare la rabbia particolare che si accumula tutte le volte che all’uomo viene impedito di attivare e perfezionare le virtù” (ibidem).
Erikson teorizza otto stadi di sviluppo, ciascuno caratterizzato da una differente crisi: quando l’ambiente pone delle nuove richieste all’individuo, il conflitto (crisi) ha inizio e necessita di risoluzione. In tal senso, la persona affronta una scelta tra due modi di risolvere la crisi, uno adattivo e l’altro no. Solo quando ciascuna crisi è risolta, con il conseguente cambiamento che determina un nuovo assetto di personalità, il soggetto avrà sufficiente forza per affrontare il successivo stadio di sviluppo. Nell’ipotesi di Erikson, l’individuo che non affronta o non riesce a superare una crisi all’interno dello stadio in cui solitamente si presenta, continua ad evolversi attraverso gli altri stadi, ma sulla base di una identità non pienamente adattativa e, perciò, non “virtuosa”.
Fiducia di base vs. Sfiducia di base: la speranza
In termini evolutivi, il primo dei cicli di vita (dalla nascita fino al primo anno) è definito da Erikson attraverso il conflitto tra “Fiducia vs. Sfiducia”.
Il bambino sperimenta la prima manifestazione di fiducia nell’ambiente familiare, attraverso la soddisfazione dei bisogni di base, in relazione alla facilità con cui si nutre, dorme e vive una condizione di rilassamento psicofisico.
Nel corso dello sviluppo infantile, la graduale diminuzione delle ore di sonno porta a sintonizzarsi sempre di più con le persone associate al “benessere” e prepara alla prima conquista sociale: la rinuncia alla vista della madre come conseguenza dell’averne fatto una certezza.
Questa esperienza è surrogata dall’acquisizione di un senso di sicurezza e di continuità, fondato sulla consapevolezza della correlazione tra i contenuti del ricordo e dell’attesa e la relazione con persone e oggetti esperiti in qualità di “eventi” familiari.
Lo stadio è altresì definito nei termini di orale/ respiratorio/sensorio ed è caratterizzato da due processi incorporativi.
Il primo viene esplicato con la suzione (la prima forma di modalità sociale acquisita nella vita, appresa in relazione con la figura materna) e consiste nel ricevere e accettare ciò che si è ricevuto. Nell’“accettare ciò che ha ricevuto e imparare a ricevere qualcuno disposto a dare ciò che desidera”, il bambino sviluppa un potenziale di socializzazione che, intermini di capacità, gli permetterà in seguito di essere disposto a dare (Erikson, 1950). Il secondo processo insorge con la dentizione e con il conseguente piacere di mordere gli oggetti agendo su di essi in una esperienza più “attiva”, una modalità di contatto psico-sensoriale che coinvolge gli occhi, le orecchie, le braccia e le mani.
Erikson utilizza il termine fiducia per esprimere il potenziale di un’esperienza di reciprocità.
“Aver fiducia” implica l’aver imparato a far affidamento sugli agenti di cura, sulla loro continuità e sulla loro identità, nonché un certo grado di consapevolezza nell’aver fiducia in se stessi, nei propri organi e nelle potenzialità condivise e condivisibili con gli “altri” significativi.
La formazione di un modello duraturo per la risoluzione del conflitto fondamentale tra fiducia e sfiducia è il primo compito dell’Io e, quindi, delle cure materne. Quello che conta, inoltre, non è la quantità di nutrimento o di cure, ma la qualità del rapporto con la madre. Nell’accezione di Erikson una buona relazione di cura è tale se consente:
“[…] una combinazione ideale di sensibilità per le esigenze individuali del bambino e di fiducia sperimentata nella forma particolare ad una determinata cultura ed appoggiata dalla stabilità di questa” (E.Erikson cit.in R.Friedman, 1999).
Un “sano” processo di sviluppo implica l’acquisizione di un grado “fisiologico” di sfiducia minima, a funzione “protettiva” per il soggetto, che riesca a far percepire un pericolo incombente o una situazione di disagio, o a distinguere tra persone oneste e disoneste, senza tuttavia contaminare il senso di amore e di fratellanza con gli altri esseri umani (una eccessiva sfiducia può infatti rendere il bambino, o più tardi l’adulto, frustrato, ritirato, sospettoso e privo di sicurezza in se stesso). Il conflitto individuato da Erikson fa emergere il senso della speranza.
La speranza è la prima virtù e, al tempo stesso, la più indispensabile; ha le sue basi nella fiducia che scaturisce dal rapporto con la madre ed è a sua volta la base della fede adulta:
“ […] il sentimento religioso induce gli adulti a ritrovare il loro stato di speranza attraverso suppliche e preghiere periodiche, assumendo un atteggiamento infantile verso le potenze invisibili e onnipotenti” (Erikson, 1963).
La speranza è quindi:
“[…] la convinzione permanente della realizzabilità dei desideri ferventi, nonostante le forze oscure e violente che segnano l’inizio dell’esistenza” (ibidem).
Autonomia vs. Dubbio e Vergogna: la volontà
Il secondo stadio del ciclo della vita (due/tre anni) postula un conflitto di Autonomia e Vergogna/Dubbio dal quale emerge il senso di autocontrollo e di volontà.
In questo periodo è molto importante che l’ambiente genitoriale crei un’atmosfera propositiva, nella quale il bambino possa sviluppare un buon senso di autocontrollo senza perdere la stima di se stesso. La vergogna e il dubbio circa la capacità di autocontrollo e indipendenza si manifestano nel bambino se la fiducia di base non si è pienamente sviluppata durante il primo stadio (Fiducia vs. Sfiducia), o se i genitori esercitano un controllo eccessivo che inibisce il senso di volizione. Dal punto di vista sociale, la crisi esistenziale è caratterizzata dall’esperienza di confronto con le regole comportamentali e di condotta in un periodo biologico in cui il bambino sviluppa la muscolatura ed una maggiore indipendenza psico/fisica (impara a vestirsi, a mangiare, a camminare e, soprattutto, il controllo degli sfinteri), espressa con modalità comportamentali che il genitore deve costantemente rinforzare cercando di fare acquisire al bambino un equilibrato senso di padronanza.
Nell’ipotesi di Erikson esiste sempre:
“[…] un limite alla sopportazione del bambino e dell’adulto per la richiesta di considerare se stesso, il suo corpo ed i suoi desideri come cattivi e sporchi, ed alla sua fede nella infallibilità di coloro che esprimono giudizi” (Erikson, 1963).
Il confronto con il sistema normativo emerge all’interno di un’esperienza complessa, in cui le figure genitoriali sono i modelli di riferimento per lo sviluppo e la costruzione di un adeguato senso del giudizio e del controllo, auto ed etero diretto.
Questo stadio, quindi, è importante nel determinare la proporzione di amore e di odio verso se stessi e gli altri, di spirito di cooperazione e di tendenza al dominio, di libertà nell’espressione del Sé e di soppressione della stessa: da un autocontrollo sufficientemente buono derivano fierezza e volontà; dalla perdita dell’autocontrollo e dagli eccessivi controlli esterni deriva una tendenza al dubbio e alla vergogna.
La virtù che caratterizza questa fase esistenziale è la volontà, definita con la valenza di:
“[…] incrollabile determinazione di esercitare la libera scelta e l’auto-controllo malgrado le inevitabili esperienze di vergogna e di dubbio vissute nell’infanzia” (ibidem).
La volontà, pertanto, è la base per l’accettazione della legge e delle necessità che trovano senso all’interno di una rete di relazioni sociali condivise e condivisibili.
Iniziativa vs. Senso di colpa: la finalità/fermezza di propositi
Il terzo stadio di sviluppo psicosociale è esperito nel conflitto tra Iniziativa e Senso di colpa (quattro/cinque anni).
In questo periodo esistenziale il bambino scopre e individua se stesso attraverso le identificazioni con i genitori e con i modelli che sono percepiti come ideali.
Sul piano delle relazioni sociali, il comportamento è strettamente correlato al “fare” (making), ragion per cui, in un ambiente scarsamente ricettivo alle esigenze personali, il pericolo conflittuale è relativo al senso di colpa rispetto a fini e atti che caratterizzano le nuove capacità locomotorie e mentali.
L’evento più importante di questa crisi è il “senso di indipendenza”: il bambino continua a prendere l’iniziativa attraverso il gioco ed è pronto ad assumersi le responsabilità delle proprie azioni .[2] Il gioco e la fantasia rappresentano per i bambini quello che il pensiero e i progetti rappresentano nella vita adulta: tramite di essi i bambini rivivono il passato e cominciano a padroneggiare il futuro, assumendo i diversi ruoli che osservano nelle dinamiche interattive tra adulti. In questo stadio:
“Le voci degli adulti vengono internalizzate come voci interiori […]. Esse contribuiscono a far sviluppare con la massima intensità la coscienza infantile fino al punto in cui avviene la definitiva separazione fra gioco e fantasia da parte e futuro irreversibile dall’altra” [3] (Erikson, 1963).
La fermezza di propositi si lega gradualmente alla realtà definita da ciò che può essere conseguito e ciò che può essere “compartecipato per mezzo delle parole”. Da tali premesse, Erikson considera la “fermezza di propositi” come:
“[…] il coraggio di porsi e perseguire scopi validi, non inibito dalla sconfitta delle fantasie infantili, dal senso di colpa e dalla paura delle punizioni”. Afferma inoltre che si basa sull’esempio della famiglia, ed “è la forza della perseveranza alla meta nutrita di fantasie eppure non fantasticata, limitata dal senso di colpa ma non inibita, moralmente controllata ma eticamente attiva” (ibidem).
Industriosità vs. inferiorità: la competenza
Il quarto stadio è definito dal conflitto critico tra Industriosità e Inferiorità (fase puberale: sei/dodici anni).
La pubertà è il periodo in cui il bambino vuole conoscere e imparare, entra a scuola ed è esposto al “progresso” e alla “tecnologia” (libri, computer, colori, stampe, disegni, film ecc.).
Il processo di apprendimento, come suggerito da Erikson, avviene in contesti sociali sempre più complessi.
A scuola, il bambino ha bisogno di sentirsi produttivo e utile,[4] soprattutto nelle interazioni “didattiche” ed in quelle sociali che si stabiliscono all’interno del gruppo dei pari.
Erikson afferma che le esperienze positive forniscono un senso di industriosità, un sentimento di competenza e padronanza; di contro, il fallimento della volizione e dell’azione genera un senso di inadeguatezza, di inutilità e di inferiorità.
La virtù che si sviluppa in questo stadio è la competenza, che permette all’individuo di sviluppare le potenzialità strumentali del corpo, della mente e degli oggetti in qualità di:
“[…] libero esercizio della destrezza e dell’intelligenza nell’esecuzione dei compiti, esercizio non ostacolato da inferiorità infantile. Essa è la base per una partecipazione cooperativa alle tecnologie e si fonda, a sua volta, sulla logica degli strumenti e delle abilità” (ibidem).
Identità vs. Confusione d’identità: la fedeltà
Il quinto stadio psicosociale caratterizza l’adolescenza (dai dodici ai diciotto anni) e si sviluppa attraverso il conflitto tra Identità e Confusione d’Identità.
La crisi adolescenziale caratterizza a sua volta una mentalità “di transizione”, fatta di attese (tra l’infanzia è l’età adulta, tra la moralità del bambino e l’etica dell’adulto) e finalizzata alla ricerca della propria Identità, di se stessi e del vero Se.
In base al principio epigenetico, se i conflitti degli stadi precedenti sono stati risolti in modo adattativo, l’adolescente avrà solide basi sulle quali costruire la propria identità; in caso contrario, quando cioè il senso di autonomia e di libera scelta risulta precario, l’adolescente esperirà un senso di de-individuazione e di confusione di ruolo. In questo stadio, il problema della costruzione dell’identità raggiunge, pertanto, il suo culmine: l’adolescenza è un periodo di cambiamenti repentini, su un piano fisico e psicologico, giocati attraverso l’integrazione tra ruoli sociali diversi (De Blasi, 2009).
Erikson afferma che l’adolescente esperisce una forte crisi esistenziale, in cui è necessario integrare tutte le identificazioni mentalizzate sin dall’infanzia al fine di costruire il senso di un’identità “nucleare”, al riparo dal pericolo di frammentazione e diffusione.
La qualità che emerge da questo stadio è la fedeltà:
“La fedeltà è la capacità di restare coerenti con i principi liberamente scelti, nonostante le inevitabili contraddizioni dei sistemi di valore. E’ la chiave di volta dell’Identità e viene incoraggiata da ideologie confermanti e da persone che pensano allo stesso modo” (Erikson, 1963).
Intimità vs. Isolamento: l’amore
Il sesto stadio di sviluppo psicosessuale caratterizza la prima età adulta (dai diciannove ai quaranta anni) ed è esperito nel conflitto tra Intimità e Isolamento.
L’evento più importante di questo periodo esistenziale è l’esperienza del sentimento di amore e dei vissuti affettivi in cui l’Intimità è riferita alla capacità del singolo di relazionarsi con gli altri in modo maturo e con un profondo livello di coinvolgimento personale. In termini conflittuali, se un individuo non ha sviluppato un senso d’identità coeso, prenderà il sopravvento la “paura del legame” e il senso di Isolamento all’interno di relazioni sociali che saranno sempre più fredde e vuote.
La virtù che emerge da questo stadio è l’amore che, in senso evolutivo, è definito dalla trasformazione dell’amore ricevuto nello stadio della pre-adolescenza verso modalità di espressione caratteristiche dei ruoli adulti.
Nell’accezione di Erikson, quindi, l’amore è una forma complessa di:
“[…] reciprocità, di devozione capace di superare sempre l’antagonismo inerente nella divisione delle funzioni. Esso pervade l’intimità degli individui ed è perciò il fondamento dell’interesse etico” (ibidem).
Generatività vs. Stagnazione: la cura/la sollecitudine
Quello tra Generatività vs. Stagnazione (dai quaranta ai sessantacinque anni) è il conflitto che caratterizza il settimo stadio della teoria dei cicli della vita.
Il termine Generatività fa riferimento alla capacità adulta di “prendersi cura” di un’altra persona ed è correlato al concetto di “genitorialità”.[5]
In questo periodo, l’individuo è impegnato a mettere da parte i pensieri sulla morte e guardare con serenità alla certezze acquisite: deve aumentare, qualunque sia il suo ruolo nella società, l’impegno e la buona volontà nel dare e nel fungere da guida per le generazioni successive.
In termini adattativi, il settimo stadio esistenziale si risolve nel piacere di assistere le nuove generazioni e guidarle con funzione di modello; di contro, se ciò non accade (se cioè l’individuo sente di non partecipare alla costruzione della nuova generazione), la mancanza di crescita psicologica svilupperà un senso di Stagnazione e di noia.
La virtù che emerge da questo stadio è la sollecitudine.
Nell’accezione di Erikson, l’uomo adulto è fatto in maniera tale da “aver bisogno che si abbia bisogno di lui”, per evitare “la deformazione mentale dell’auto-assorbimento in seguito alla quale diverrebbe suo stesso figlio e suo oggetto prediletto”.
L’uomo, pertanto, ha naturalmente bisogno di insegnare. La sollecitudine, quindi, si individua come:
“[…] dilatante preoccupazione per ciò che è stato generato dall’amore, dalla necessità o dal caso; essa supera l’ambivalenza legandosi a una obbligazione irreversibile” (Erikson, 1963).
Integrità vs. Disperazione/Disprezzo: la saggezza
L’ultimo stadio di sviluppo psicosociale caratterizza l’età senile (dai sessantacinque anni fino alla morte) e si individua nella crisi predominante tra Integrità e Disperazione/Disprezzo.
La vecchiaia è l’età in cui l’individuo fa un bilancio della sua vita: l’evento più importante è l’accettazione serena di tutta l’esistenza passata attraverso una riflessione ed una memoria positiva rispetto alle esperienze fatte ed acquisite.
Il senso di Integrità garantisce una posizione esistenziale in cui si accetta la morte e presuppone il senso di responsabilità verso ciò che è stato fatto nell’arco della vita, la possibilità/intenzione di poter “riparare” e un senso di approvazione e soddisfazione per se stessi e per le azioni passate.
In termini conflittuali, la mancanza del senso della propria produttività esistenziale fa sorgere un senso di disperazione, di disprezzo e di paura della morte.
Nell’accezione di Erikson quest’ultimo stadio rappresenta anche un inizio: il ciclo di vita, infatti, ritorna alle origini, in modo che i più vecchi, diventando di nuovo simili ai bambini, accettino la ultima responsabilità esistenziale, quella per cui ogni generazione deve trasmettere alla successiva quella forza grazie alla quale quest’ultima sia in grado di affrontare le crisi importanti della vita.
La saggezza, in qualità di virtù tipica dell’ultima crisi esistenziale:
“[…] è interesse distaccato per la vita in sé, al cospetto stesso della morte. Essa conserva e trasmette l’integrità dell’esperienza, malgrado il declino delle funzioni fisiche e mentali. Essa risponde al bisogno di un’eredità integrata, proprio della nuova generazione, pur restando consapevole della relatività di tutto il sapere” (Erikson, 1963).
Bibliografia
Burston, D. (2007), Erik Erikson and the American Psiche. Ego, Ethics and Evolution, Jason Aronson, New York.
De Blasi, V. (2009), Introduzione alla psicologia dello sviluppo, Aracne, Roma.
Erikson, H.E. (1950), Infanzia e società, trad. it. Armando, Roma, 1967.
Erikson, H.E. (1958), Il giovane Lutero, tr.it. Armando, Roma, 1979.
Erikson, H.E. (1963), I cicli della vita. Continuità e mutamenti, trad. it. Armando, Roma, 1999.
Erikson, H.E. (1964), Introspezione e responsabilità, trad. it. Armando, Roma, 1972.
Erikson, H.E. (1964b), Introspezione e responsabilità. Saggi sulle implicazioni etiche dell’introspezione psicoanalitica, trad. it. Armando, Roma.
Erikson, H.E. (1968), Gioventù e crisi di Identità, Armando, Roma, 1974.
Erikson, H.E. (1976), Autobiografia in parallelo: con Freud, Gandhi e la nuova generazione. Storia individuale e momento storico, trad. it. Armando, Roma.
Erikson, H.E. (1981a), I giocattoli del bambino e le ragioni dell’adulto, trad. it. Armando, Roma.
Erikson, H.E. (1981b), L’adulto. Una prospettiva interculturale, tr.it. Armando, Roma.
Fiorelli, F. (2007), L’identità tra individuo e società. Erik Erkson e gli studi sull’Io, Sé e identità, Armando, Roma.
Friedman, L.J. (1999), Identity’s Architect: a biografy of Erik H.Erikson, Scribner, New York.
Mayer, H.E. (1992), L’età infantile. Guida all’uso delle teorie evolutive di E.H.Erikson, J.Piaget, R.R.Sears nella pratica psicopedagogica, trad. it. Franco Angeli, Milano.
Roazen, P. (1982), Erik H.Erikson: tra psicoanalisi e sociologia, Armando, Roma.
[1] Erikson ha sostituito il termine diffusione d’identità con confusione d’identità. “La diffusione d’identità suggerisce una frattura di auto-immagini, una perdita del centro ed una dispersione”, questa sarebbe stata forse la parola migliore anche se dispersione potrebbe far pensare ad una trasmissione dell’identità ad altri piuttosto che ad uno sgretolamento in se stessa; “d’altra parte confusione è una parola troppo radicale; un individuo giovane potrebbe essere in uno stato di lieve diffusione d’identità, senza sentirsi completamente confuso”. “Ma poiché confusione è ovviamente la parola migliore per designare gli aspetti soggettivi e oggettivi dello stato che stiamo per descrivere, la miglior cosa sarà considerare una lieve confusione ad un capo della linea continua, ed una confusione aggravata e pericolosa dall’altro” (E.Erikson cit. in R.Friedman, 1999).
[2] Per le considerazioni elaborate da Erikson sul gioco infantile si fa riferimento a Infanzia e Società (1950) ed a I giocattoli del bambino e le ragioni dell’adulto (1981).
[3] L’interpretazione di Erikson suggerisce che in questo stadio il bambino subisce una sorta di divisione rappresentazionale interna in: “una parte infantile che perpetua l’esuberanza dei potenziali di sviluppo, ed in una genitoriale che è alla base dell’auto-osservazione, dell’autocontrollo e dell’autopunizione” (Erikson, 1963).
[4] Cosa che risulta, nelle culture occidentali, molto difficile. La scuola, dice Erikson, sembra essere una cultura per se stessa, dotata di propri fini e limiti, conquiste e delusioni. Il contesto scolastico tende a fornire al bambino e al ragazzo una cultura di base che sia utile per il maggior numero di carriere possibili; tuttavia, più complesso diventa il numero delle specializzazioni, più indistinti diventano i fini che lo spirito d’iniziativa deve perseguire (Erikson, 1963).
[5] Sono inclusi anche i concetti di produttività e creatività, nel senso di “curare” qualcosa; l’attenzione del soggetto dovrebbe essere rivolta a problemi come la salvaguardia del pianeta, l’uguaglianza tra le persone ecc.