Dialoghi sulla felicità

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Nelle Lettere a Lucilio, Seneca scriveva che per essere felici bisogna eliminare due cose: il timore di un male futuro e il ricordo di un male passato, perché il primo non ci riguarda ancora e il secondo non ci riguarda più. In fin dei conti, i pazienti che si rivolgono a uno psicoterapeuta chiedono di accedere a questo stato dell’essere, a un vissuto di felicità persa o mai toccata. Le persone che soffrono hanno bisogno di raccontare il loro dolore a un testimone consapevole, che li ascolti oltre ogni forma di giudizio e pre-giudizio, con l’intento di liberarsi da un disagio dell’anima che forse nemmeno loro sanno bene individuare se non agendolo all’esterno in qualità di sintomo. Quella dei pazienti è quindi una domanda sacrosanta, anche se spesso non centrata sulla vera verità del conflitto che alimenta il malessere stesso. Quali sono le risposte che oggi la psicoterapia può clinicamente e (non di meno) culturalmente fornire? Mi piace intendere la psicoterapia, vederla e parlarne nei contesti formativi (tanto quanto tra amici quando me lo chiedono), come se fosse un percorso di cambiamento condiviso – e sicuramente faticoso – verso la creatività, in cui man mano ci si possa liberare, scegliendo di farlo, dei pesi inutili portati in valigia, di quelle dolorose zavorre psichiche che sono di impedimento al superamento delle crisi, mantenendo solo l’essenziale dell’esperienza e del vissuto appreso, in virtù di un’idea di ben-essere che consenta di non fare troppo male a se stessi e di non farlo agli altri. Cambiare, dunque, accettando la Verità del Sé, che non sempre coincide con la consapevolezza di essere “bravi, buoni e belli” ma che spesso implica un certo grado di coraggio per “pensare” le proprie responsabilità psichiche, le proprie debolezze, scoprendo, paradossalmente a partire da questi umani limiti, le proprie potenzialità.

Per essere “liberi di”, insomma, bisognerebbe prima essere “liberi da”.

 

Psicologo, Psicoterapeuta

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