Psicologia delle masse e analisi dell’Io

Il contributo di Freud allo studio dei gruppi Dall’accezione teorica di Claudio Neri, possiamo segnalare come le idee più importanti per un approccio psicoanalitico al gruppo siano state elaborate in un arco di tempo di circa cinquant’anni, quello che intercorre tra Totem e Tabù (1912/1913) di S. Freud ed Esperienze nei gruppi (1961) di W. R. Bion. Durante questo periodo ci furono molti cambiamenti nel modo di concepire il gruppo: tra il “gruppo-massa” di cui aveva parlato Freud e quello di cui si interessò Bion vi sono numerose e significative differenze (Neri, Gruppo, 1998). Lo studio che Freud intese operare sulle dinamiche dei gruppi, quindi, pur non rientrando in modo specifico nell’ambito della teoria e delle tecniche che caratterizzano le metodologie gruppoanalitiche (come al contrario accade per la metodologia inaugurata da W.Bion) dimostrano indiscutibilmente un alto valore metapsicologico e speculativo. In primo luogo, il saggio “Psicologia delle masse e analisi dell’Io”, opera in cui Freud si propose di dare risposta

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Il Gruppo in Psicologia

Che cosa è un gruppo? Ci sembra necessario premettere una riflessione, il più possibile sintetica e coerente, che aiuti a definire cosa sia un “gruppo”. Consapevoli dei rischi che occorrono in ogni tentativo di sintesi, in primo luogo è ovvio affermare che il “gruppo” può essere studiato attraverso diversi orientamenti di ricerca, sostanzialmente compatibili tra loro. Nell’ambito psicologico la scelta di fornire una definizione coerente e condivisibile di “gruppo” espone sempre a due tipi di rischi concettuali, allo stesso tempo uguali e opposti. Se si opta per una definizione complessa della fenomenologia e della natura della gruppalità, il pericolo è quello di creare confusione tra i diversi livelli interpretativi che rispondono alla diversità delle discipline scientifiche – sociologia, antropologia, filosofia, psicologia – e che danno visioni e comprensioni dell’oggetto in esame spesso apparentemente inconciliabili. In un secondo caso, quando si cerca di fornire invece una “definizione operativa” e quindi “satura” del concetto di “gruppo”, l’inevitabile errore potrebbe essere quello di

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Il Pensiero: teoria e clinica

“L’uomo è visibilmente fatto per pensare; è tutta la sua dignità e tutto il suo mestiere” (Blaise Pascal, I Pensieri). Il pensiero rappresenta l’espressione più significativa della natura umana e la caratteristica più importante della sua specificità. Storicamente, lo studio dei processi di pensiero è stato dominio della tradizione speculativa e scientifica che, a partire dalle digressioni filosofiche di Aristotele, ha focalizzato l’attenzione sullo studio della logica e, quindi, delle regole alle quali il pensiero, per risultare realistico ed adattativo, deve conformarsi sulla base dei concetti e dei giudizi. In via differenziale rispetto ai principi della logica e alla sua interpretazione marcatamente contenutistica, le teorie psicologiche applicate allo studio del pensiero muovono dal presupposto secondo cui, nelle sue molteplici forme ed espressioni, l’attività psichica ha sempre una valenza bio/psico/sociale che ne definisce struttura e funzioni. In base a questa impostazione, con il termine “pensiero” si indica una organizzazione psichica altamente complessa, organizzata secondo il principio di realtà ma non limitata ai

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Meccanismi di difesa: teoria e clinica

  L’Io si avvale di diversi procedimenti per essere all’altezza del proprio compito, per evitare pericoli, angoscia, dispiacere […] Noi chiamiamo questi procedimenti “meccanismi di difesa” (Freud, S., Analisi terminabile e interminabile, 1937). Nel 1894 Sigmund Freud descrisse per la prima volta l’esistenza di meccanismi inconsci che in quel momento indicò con il termine generico di “rimozione”. La sua ipotesi muoveva dal principio che tali meccanismi erano volti a proteggere l’individuo da conflitti, idee ed emozioni spiacevoli (De Blasi, 2009). Nella letteratura freudiana le difese dell’Io sono teoreticamente concettualizzate attraverso una analisi delle loro proprietà fondamentali. Da ciò si evince che: 1) sono lo strumento principale con cui il soggetto gestisce gli istinti e gli affetti; 2) sono inconsce; 3) sono discrete l’una rispetto all’altra; 4) tendono a essere reversibili; 5) possono essere sia adattive che patologiche. Il termine “resistenza”, che Freud nel 1899 definì come “qualsiasi cosa disturbi l’andamento del lavoro analitico”, descrive il “muoversi” della difesa all’interno della relazione

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Alcune note sul processo di mentalizzazione in psicologia clinica

    Crisi dell’ortodossia psicoanalitica e nascita del concetto Le revisioni critiche al modello freudiano coincidono storicamente con la nascita di nuove teorie psicodinamiche. In tal senso, lo studio dei processi di mentalizzazione sembra rispondere alla necessità di far fronte al progressivo declino della ortodossia psicoanalitica, attraverso una teoria ed una prassi psicodinamica in cui proprio la mentalizzazione viene assunta a principio sistemico e clinico. L’impostazione teorica avanzata da Fonagy ed Allen (2006)[1] nasce dall’esigenza di rivisitare gli assunti dell’unità dottrinale della psicoanalisi e propone un lavoro di riformulazione pensato al fine di sviluppare un modello teorico e tecnico in linea con le reali domande di intervento psicoterapeutico ed adeguato rispetto al trattamento dei disturbi borderline di personalità. Nel sottolineare il rischio di una imminente “morte della psicoanalisi”, il modello psicodinamico che fa riferimento alla mentalizzazione non si limita quindi a stimolare una nuova prospettiva metapsicologica, mirata ad evolvere il comune background storico e terminologico di chiara matrice psicoanalitica, ma

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