La sera conosce cose che il mattino non si immagina.
Diario di bordo: lunedì 9 marzo 2020, ore 20.00.
Sono tornato da studio dopo una giornata di appuntamenti. Oggi c’è un clima strano dentro e fuori la stanza, di attesa di non si sa bene cosa, e ci si da’ la mano con pudore, per poi provvedere alla sua igiene. Si percepisce tanta ansia. Quelli che hanno iniziato la terapia a causa di uno storico disturbo ossessivo sembrano voler dire: “ve l’avevo detto”. C’è un flacone di Amuchina sulla mia scrivania, un oggetto estraneo, ma necessario, dicono, e sono in fondo d’accordo.
Accendo la TV per vedere un documentario inglese sull’età evolutiva. Io e mia moglie siamo curiosi, forse ci aiuterà a capire meglio come il nostro cucciolo di uomo imparerà a gattonare. Ci prova ogni giorno, ed è un po’ buffo vederlo nel suo quotidiano sforzo di colmare le distanze tra lui e noi in modo autonomo. Anche se poi ti piange il cuore vedere che ancora non ce la fa, ragion per cui si finisce sempre in una corsa a due per chi lo aiuta prima.
Teo, 8 mesi tra qualche giorno, sta dormendo nell’altra stanza. E’ una settimana che non può andare in asilo ed è più nervoso. Le educatrici sono eccezionali, abbiamo fatto un buon inserimento, lui è un bambino sereno, e in asilo è sereno. O forse siamo stati solo fortunati. Ci ritornerà, teniamo duro e tiene duro il piccolo, tra i pacchi ancora non aperti che saturano il salone dopo il recente trasloco, uno spazio che i gatti hanno ormai scambiato per una giungla privata. Immagino che per loro sia una sorta di ritorno alla natura.
Ore 21.30: capisco che anche stasera dovremo rimandare. Il presidente del Consiglio sta comunicando un decreto d’urgenza. La situazione è grave, tutti, di fatto, saremo in quarantena per non si sa quanto tempo. Si chiama “lockdown”, un altro termine inglese utilizzato per rassicurare, ma che finisce per confondere.
Penso alla mia famiglia, a tutti i bambini che come il mio non potranno uscire di casa, come avevano fatto fino a ieri. Penso che dovremo e dovrò proteggere Teo da tutto questo, ma che per poter proteggere lui dovrò proteggere anche me. Non è una questione di paura, ma di responsabilità, più responsabilità. Non ho paura.
Penso poi al mio lavoro, a come ora io possa essere d’aiuto alle persone che seguo in terapia, i miei pazienti. A come possa aiutarli a colmare le distanze, ora che sono, di fatto, aumentate. Ho letto Freud in lungo e in largo, mi ha aiutato tanto finora, ma credo non basti più. A parte quella profetica e lucida descrizione del contagio emotivo e del panico con cui anticipava la seconda guerra mondiale, non mi viene in mente nulla di esistenzialmente appropriato. A parte la guerra, quindi.
Serve qualcosa d’altro. Tutta la teoria sugli attacchi di panico e sulla relativa pratica clinica mi sembra ora un bicchiere d’acqua con cui spegnere un incendio.
Mi viene in mente G., un paziente che aveva in passato lavorato come informatico per l’OMS, ai tempi della SARS, quando il 23 gennaio durante una seduta mi aveva anticipato tutto.
“Sa dottore, l’epidemiologia in fondo è matematica, come spesso lo è la medicina”, “e la psichiatria”, risposi io, indicando il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, meglio conosciuto come DSM. A me non piace molto fare diagnosi con il DSM, lo trovo asettico e poco umano. Non sottovalutai il suo allarme, semplicemente speravo assieme a lui.
Mi disse che ci sarebbero stati due scenari, uno “normale”, l’altro “grave”. A distanza di un mese e mezzo siamo in quello “grave”, anche se pensavamo che si sarebbe verificato quello “normale”. Ennesima prova che la “normalità”, in fondo, non esiste, qualora ce ne fosse stato bisogno. Siamo due ottimisti, in fondo. Poi mi viene in mente un antico racconto africano che inizia così: si narra di un uomo che decise di avventurarsi negli inospitali territori dell’Africa, accompagnato soltanto dai suoi portatori. Ciascuno di loro impugnava un machete con cui si aprivano strada tra la folta vegetazione. Il loro obiettivo era avanzare a tutti i costi…d’un tratto, dopo solo qualche ora scarsa di marcia, i portatori si fermarono, lasciando interdetto l’avventuriero. Egli chiese: “Perché vi siete fermati? Siete già stanchi dopo poche ore di cammino?” Allora uno dei portatori lo guardò e rispose: “no signore, non siamo stanchi. Ma abbiamo avanzato talmente veloce da lasciare indietro le nostre anime. Adesso dobbiamo aspettare finché non ci raggiungano”.
E allora credo che questo sia il virus della verità.
Chi è solo scoprirà la solitudine, chi è in crisi con il proprio partner scoprirà il fallimento della relazione, chi è dipendente dovrà guardare in faccia i fantasmi delle sue antiche dipendenze, chi è circondato da buoni affetti realizzerà di essere amato.
Fin qui nulla di nuovo, se non per il fatto che la verità emergente sarà una verità psichica definitiva, repentina, contagiosa, senza appello. Riguarderà tutti. E produrrà, in un modo o nell’altro, in un senso o in un altro, cambiamento. Questa Verità psichica, qualunque essa sia, sarà implacabile, sarà un solco sul vinile della vita, non uno di quei graffi che magari rendono a volte il suono delicatamente vintage. Non si scappa. Immagino un Dio che gioca a fare lo psicoanalista, che ferma tutti su un lettino e, prima di mantenere il silenzio, dice: “dunque, è arrivato il momento, mi parli di lei”.
Volente o nolente, alla fine emergerà il vissuto più simile a ciò che nel mio mestiere si chiama depressione, quel vuoto che si è abituati a colmare difensivamente, dal fare, da uno stile di vita patinato e riempitivo, dalle paillettes, dal troppo, dalle dipendenze, dalla menzogna del Sé. Inevitabile.
Io proverò a proteggere Teo, la mia famiglia e quindi me stesso. Teo, sorridendomi la mattina quando si sveglia, proteggerà me.
Proverò a essere d’aiuto a coloro con cui lavoro in terapia. Penserò, e non mi lamenterò più di non aver tempo per pensare. Imparerò qualcosa, spero.
Resisterò nell’attesa, in un momento presente che durerà quanto dovrà durare.
Questa volta, davvero, sarà un tempo che non dipende da me. Quello che potrò fare è vivere la temporalità, ossia il processo del tempo, guardando un po’ meno l’orologio, un po’ di più il sole e ciò che mi circonda. A volte, ammetto, dimentico di farlo.
Con pazienza, senza paura, un po’ di preoccupazione e, perché no, una sana, umana, curiosità.
Forza!